Pagliacci, un’opera metateatrale e quasi pirandelliana ante litteram

Leoncavallo con Pagliacci non ha fatto solo un’opera verista; è possibile che la necessità di produrre qualcosa che avesse per oggetto “il Vero” lo abbia portato a riflettere sulla sua antitesi speculare, ovvero sulla finzione; in effetti due concetti opposti si definiscono meglio se si dispongo l’uno di fronte all’altro. Ma evidentemente c’è un punto in cui avviene una sorta di ‘crasi‘ tra i due mondi: allora realtà e finzione si confondono, non si sa più dove finisce l’una e dove comincia l’altra.

Il teatro nel teatro

In Pagliacci, Leoncavallo gioca abilmente con i vari piani narrativi: c’è la realtà (quella degli spettatori che vengono a vedere l’Opera), il teatro (l’Opera Pagliacci), e il teatro nel teatro (la commedia in maschera che preparano i personaggi, in quanto attori); sono dimensioni inserite l’una dentro l’altra come matrioske; ma poi realtà e finzione si mescolano, si mescola farsa e tragedia, il riso alimenta il pianto; per un gioco di contrasti, anche nell’animo del protagonista gli opposti si esaltano a vicenda, fino alla tragica violenza finale.

Lo spettatore è coinvolto in questo gioco tra finzione e realtà fin dal prologo, in cui si invita a ritenere ciò che si vede come vero, non come finzione; da lì in poi è tutto un rincorrersi di realtà e finzione; il prologo viene rispecchiato nel discorso di Canio ‘Un tal gioco, credetemi, è meglio non giocarlo‘, in cui egli, contrariamente al Prologo, dice al suo pubblico che finzione e realtà non sono la stessa cosa. Ma poi la vita lo smentisce categoricamente, perché la realtà gli propone in modo tragico la medesima situazione che dovrebbe recitare in modo comico… Questo lo manda totalmente in crisi; nel suo solitario monologo cercherà di farsi coraggio e portare avanti lo spettacolo (“se’ tu forse un uom! Tu se’ Pagliaccio!”), ma non riuscirà a reggere quella parte fino in fondo; ad un certo punto i sentimenti veri spezzeranno quella maschera (‘No, Pagliaccio non son!“), e la commedia viene spazzata via dalla tragedia, dalla violenza e dal duplice omicidio. Il Pagliaccio si gira verso il pubblico sotto choc ed esclama, in modo al tempo stesso tragico e sarcastico, che ‘la commedia è finita!’.

Un antesignano ottocentesco di Pirandello

E qui si può sicuramente scorgere una tematica molto moderna che verrà ripresa e ampliata nel corso del ‘900, quando la riflessione sull’identità diventa sempre più articolata.

La maschera, infatti, può essere intesa, in senso pirandelliano, anche come il ‘ruolo‘ che nostro malgrado siano destinati ad impersonare in certi contesti sociali. Pirandello mostra in varie opere in quali modi si manifesta questo conflitto tra esterno e interno, tra ruolo sociale e sentimenti dell’individuo. Quando una persona si ribella al ruolo che gli altri si aspettano che svolga, quando decide di stapparsi via quella ‘maschera’ che gli altri gli hanno ormai ‘incollato’ addosso, gli esiti non possono che essere tragici e distruttivi, come ad esempio avviene in Enrico IV. Nella sua ‘trilogia metateatrale‘ (Sei personaggi in cerca d’autore, 1921; Ciascuno a suo modo, 1924; Questa sera si recita a soggetto, 1930) Pirandello ricorre espressamente all’espediente del metateatro proprio per far emergere con drammatica evidenza tutti questi conflitti e anche per far vedere come realtà e finzione siano due dimensioni in reciproco rapporto, che si influenzano l’un l’altra continuamente.

I Pagliacci di Leoncavallo costituiscono una sorta di “antesignano” ottocentesco delle opere esplicitamente metateatrali di Pirandello; a volte viene chiamata “pre-pirandelliana”. È assai probabile che Pirandello avesse presente Pagliacci come riferimento, anche per via della grande popolarità di quest’opera.

Interessante è anche vedere come i Pagliacci di Leoncavallo abbiano una struttura che si regge sullo sdoppiamento; la stessa situazione si presenta su più piani innescando una riflessione su vita e arte, e su commedia e tragedia. Tutto si intreccia in un gioco di specchi, analogie, similitudini. I personaggi reali hanno corrispettivi scenici; siamo nell’ambito della finzione scenica, tuttavia i piani si incastrano: gli attori interpretano delle persone che di mestiere fanno gli attori e che poi interpretano dei ruoli nella loro commedia; ne consegue che l’Opera è la realtà rispetto alla finzione della pantomima, che è teatro nel teatro.
Il piano dell’Opera-realtà si contraddistingue musicalmente perché ha un andamento parlato più naturale ed espressivo, mente la pantomima presenta numeri chiusi più tradizionali, settecenteschi, che suonano artefatti. Canio però si contraddistingue perché, a differenza degli altri personaggi, mantiene sempre la sua personalità vocale, anche nella pantomima; di Pagliaccio ha solo il vestito, ma non canta in modo diverso, perché non sta recitando: mantiene intatta la sua vera personalità e psicologia; il suo tragico lirismo rompe la finzione commedia.

Tutto si trasforma: la finzione in realtà, la commedia in tragedia, l’amore in odio. Gli spettatori della commedia in maschera vedono dapprima messo in discussione il genere (la commedia diventa tragedia) e poi anche la convenzionale natura fittizia di uno spettacolo teatrale: la condotta di Canio infrange la regola di base necessaria al godimento di un qualsiasi spettacolo da parte dello spettatore, ovvero la “consapevolezza della finzione” delle vicende che vede svolgersi nello spazio scenico.

Una riflessione sul comico

Pagliacci può anche fornire l’opportunità di fare una riflessione sul comico; la vicenda di una donna che tradisce il marito è un fatto che, in una narrazione o in una rappresentazione scenica può avere due trattamenti diversi: può essere reso in modo tragico, oppure può anche essere comico
Di norma chi vive personalmente un tradimento non è portato a vederlo come un fatto comico; si provano sentimenti di dolore, delusione, rabbia, ecc. Chi lo guarda dall’esterno, in un’ottica più distaccata, invece potrebbe trovarvi degli aspetti comici.

Del dolore che non ci colpisce direttamente è più facile ridere.

In effetti, può essere abbastanza sconvolgente rendersi conto di quanto spesso l’essere umano rida anche di fatti obiettivamente dolorosi: ad esempio, quante barzellette sulla morte, la malattia, il tradimento, incidenti, disgrazie, ecc! Sul perché questo avvenga si sono interrogati alcuni filosofi, tuttavia è un argomento piuttosto difficile da discutere, anche se di indubbio fascino.

  • Bergson ha scritto un saggio molto importante e molto famoso che si intitola “Il riso, Saggio sul significato del comico”; qui egli afferma che nemico del riso è l’emozione; finché si prova empatia, finché ci si immedesima in qualcuno, sarà molto difficile ridere di lui; il riso ha bisogno di un certo distacco o distanziamento dalla situazione o dalla persona; si deve osservarla da lontano, da spettatore, e in questo modo si riesce a percepire in lei qualcosa di fuori norma, sbagliato, esagerato (nei comportamenti, negli atteggiamenti, ecc) di cui lei non è consapevole. Il riso è un fatto sociale; si ride insieme a qualcuno (dello stesso gruppo, che condivide le stesse vedute) di qualcun altro (che viene percepito come estraneo, diverso, o anche nemico).
  • Anche Pirandello ha scritto un saggio, Sull’umorismo, in cui si sofferma ad analizzare la differenza tra comico e umoristico, con molti esempi presi dalla letteratura e riflessioni personali. 
  • Un altro bellissimo saggio è quello di Alfredo Civita, Teorie del comico, particolarmente interessante nella disamina psicologica di ciò che a volte accomuna il comico e il perturbante: il comico spesso nasce dalla volontà di esorcizzare qualcosa che d’impulso spaventa e angoscia.

Chiedersi sul perché l’essere umano abbia l’abitudine di ridere di fatti di per sé poco allegri può anche servire da spunto per interrogarsi cosa si celi dietro il riso, se a volte esso possa essere crudele, se ci siano casi in cui ridere sia poco etico, se ci possano essere dei confini da non valicare.
A questo proposito non si può non pensare al personaggio del venerabile Jorge nel Nome della Rosa di Umberto Eco; egli che aborriva il riso e avvelenava chi osava leggere il II libro della Poetica di Aristotele, dedicato alla Commedia, perché “Gesù non aveva mai riso”.

Per quanto riguarda la figura del pagliaccio, può essere importante tener presente che molte persone provano disagio al suo cospetto, lo trovano inquietante, o addirittura decisamente sinistro; questa fobia non è frequentissima, ma meno rara di quel che si creda; si chiama Coulrofobia
Può dipendere anche dal fatto che a volte il pagliaccio fa la parte del cattivo, dell’assassino; il Pagliaccio di Leoncavallo fa sicuramente parte di questi, così come altri celebri clown malvagidel ‘900, ovvero Joker e IT.

Di sicuro possiamo arrivare alla conclusione che il comico non è qualcosa di fisso e di universale; varia a seconda degli individui e del gruppo sociale di appartenenza. Per questo il comico è qualcosa che muta nel tempo e a seconda della latitudine geografica.

Tornando ai Pagliacci, la dichiarazione del Prologo forse può essere intesa come un invito a non fermarsi alle apparenze e alle letture facili, già preimpostate, di chi allestisce ad arte un certo modo di guardare alle cose; perché la realtà forse più vera di tutte è che tutti siamo esseri umani, soggetti ai nostri sentimenti, che ci rendono a volte fragili e a volte forti, in modo del tutto imprevedibile e fuori da qualsiasi logica.

Per saperne di più su Pagliacci:

Pagliacci, scheda dell’opera: personaggi, libretto, trama, tutte le più belle arie, mp3 da scaricare, e tanto altro.

Immagine: il tenore Vladimir Atlanov in ‘Ridi Pagliaccio’, fotogramma

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